Aprile 2015
Premetto che non sono un critico d’arte. Questo è solo il mio pensiero, il pensiero di un povero poeta al quale quasi nessuno attinge. E’ in questa condizione che tendo l’approcio all’opera di Mutti. Mi sono spogliato di ogni pregiudizio lavandomi gli occhi e la mente dalle incrostazioni dell’immediata visione delle opere. Ho cercato di entrare nella nervatura delle figure scoprendo in queste il libero respiro della leggiadria. Si ! Ecco, è la leggiadria che io colgo nell’anima di queste opere che formano un tutt’uno tra di loro e l’artista. E’ una visione anche antropologica nella conquista di uno spazio vitale ove si esprime la forza di ogni personalità umana, ma anche dell’animale.
La donna e il cavallo sono le due figure che in natura esprimono nella loro immediatezza il valore della leggerezza, la più ardita e la più pura. La totale nudità del corpo nella sua anatomia non porta ad una mera espressione erotica quanto invece al trionfo della vita nella continuità della divina creazione. La sorgente di ogni ispirazione non è nella vacuità delle cose ma nella loro drammaticità e, nel contempo, anche sul trionfo della vita stessa nella sua quotidianità, al bello dell’esistenza in ogni vicissitudine. Non vi è infatti pensiero incolmabile nelle condizioni espresse dai volti nelle loro pose. E’ come se, il quadro esistenziale esigesse l’adeguamento nello spazio della sua propria unicità. Non rassegnazione quindi, ma scelta prescendibile dallo spirito della dimensione cosciente del proprio io e , in riferimento agli animali, nell’istinto della propria specificità. L’espressione dei corpi femminili non sono statici ma dinamici, infatti, pare tocchino e delineino i confini del cosmo nel mistero del creato in perenne espansione. Una allegoria che richiama il ribollire dell’amore creatore. La creatura e la creatrice nella sublimazione della maternità, nel procreare ciò che si confronta con se stesso.
Il cavallo, l’altra espressione tanto pura quanto efficace della leggiadria. Il simbolo della corsa incontro al vento per vincerlo e raccontarlo ai suo garretti sciolti, turbinanti nella criniera spavalda quasi a sfidare le leggi della natura. Qui non si vedono in atteggiamenti di sfida, quanto invece avviluppati in reti e lacci dove le loro prorompenti musculature si tendono e rigonfiano nella disperata lotta per la libertà. Le vite di queste espressioni si tendono come un arco. Infatti le loro posizioni evocano la doma, non importa se subita o ignorata quello che importa è la frenesia, l’ambivalenza della docilità e della ribellione. In certe sculture viene sottolineata come il fondersi dei corpi o parte di essi che si riferiscano alla universalità dinamica di una unica essenza che si plasma nel tutto e del tutto per frazionarsi poi, nella specificità della specie. Più semplicemente: in ogni cosa esistente c’è una parte del tutto. Forse la presenza del maschio nell’insieme delle visioni viene presentata come una marginalità nella sua tendenza predatoria, anche se appare mascherata nel vortice infuocato della istintiva, e nello stesso tempo, razionale passione erotica, ma sempre umana, nella visione contemplativa e indagatrice dello scultore.
La maternità nella capra con l’infame sforzo del parto ancora richiama alla sofferenza e al travaglio, ma la chiave di volta è ancora il triofo della vita e il ritorno alla sua immutabile leggiadria.
Complimenti caro scultore anche da Lei ho appreso il valore dell’arte, la sublimazione e la ricchezza della persona umana nella divesità è provvidenzialità dei talenti.
Italo Bertolin