Brescia, 30 Ottobre 1998
Caro Mutti,
Non è dubbio che tra le arti figurative la scultura sia la più concreta, cioè quella che richiede il minore processo astrattivo per essere intesa.
Anche se oggi le mancano i colori, ha pur sempre le sue brave tre dimensioni che la collocano nella categoria che il gergo informatico definisce come "ciò che vedi e ciò che è".
Con questo non deve intendersi che lo scultore non abbia ogni libertà di interpretazione, o addirittura di trasfigurazione o di eliminazione del reale, ma solo che la sua opera sarà vista "come è", a differenza di qualsiasi opera grafica che senza la accettazione convenzionale della terza dimensione non è concretamente fruibile se non come icona stradale o informatica.
Il confine tra il "ciò che vedi" e il "ciò che è", è per lo scultore una linea incerta, una sorta di confronto a variabile tasso di probabilità tra ciò che lui pensa e ciò che gli altri capiscono. La rappresentazione della figura umana consente qualche maggiore libertà: la "storia" incorporata dal soggetto legittima diversi scostamenti dal reale, presenti anche nella statuaria classica, e via via continuati nei secoli.
Credo che sottoponendo a una commissione di anatomisti e di fisici gran parte di quanto si è prodotto fino ad ora, numerosi sarebbero i cavalieri disarcionati, gli arcieri ruzzolati da qualche parte, i gladiatori snodati e chi più ne ha più ne metta, ma ciò non impedirebbe di godere le opere perché la storia del soggetto completerebbe con un marginale processo astrattivo la intellegibilità del discorso.
La figura animale per contro non ha altra storia che la storia naturale, cioè universale e immutabile. Il cavallo, poi, compagno inseparabile della umana statuaria, è stato persino, se mal non ricordo, condizionato ad alzare una o più zampe a seconda della condizione di caduto o di ferito in battaglia del cavaliere, che forse se moriva incolume e nel suo letto, il monumento non glielo facevano proprio (ma il cavallo di Missori, a Milano, è ai miei occhi semplicemente meraviglioso nella sua palpitante stanche7,7,a).
Il movimento dell'animale, quando viene trovato fuori dalla "storia naturale" può produrre effetti plastici di indiscutibile drammaticità, ma si colloca piuttosto nella eleganza del far l'astratto col concreto che nella aderenza alla terra, alla natura, all'ambiente che alcuni ravvisano nelle Sue peraltro più che pregevoli opere.
Le dirò, per inciso, che mia moglie - molto più colta di me sullo specifico, e sensibile al bello come può solo chi cresce con un tempio dorico sull'uscio di casa - è entusiasta dei Suoi cavalli.
A me piacciono enormemente le figure femminili dai corpi solidi e concreti, dai movimenti della vita, dai volti della strada. Vi ritrovo la "bassa" trasfigurata in un lieve incremento di quella dignità iconografica che a pieno titolo le competerebbe se si fosse tutti sfuggiti alla tentazione del luogo comune.
La "bassa" è piana ma non piatta, rigogliosa ma non grassa, semplice ma non stupida, feconda come una giovenca e non come una coniglia. Nelle figure femminili la ritrovo, come un amore che non mi ha mai lasciato da quando (bicicletta e doppietta) scendevo dalla Valtrompia a dormire in fienile in attesa che le quaglie chiamassero il giorno nuovo.
Mi complimento moltissimo, e spero di trovare occasione per ammirare i Suoi lavori meglio che in cassetta. Cordialmente
Pippo Apicella